Manca talmente poco al 7 Marzo, da poter già assaporare la brezza che spira da Atlanta e l'eco di una mandria di campioni sul parquet. Se una partita all'anno si chiama All Star Game ci sarà pure un motivo o no? Icone. Una parola abusata, troppo spesso usata. Non nel NBA, dove si tende più ad abbattere che ad arricchire i propri capolavori e ogni storia è ammantata da un filo di leggenda, una nebbia sottile che in primavera potete incontrare a New Orleans... o ad Atlanta. 'Abbattere più che arricchire' suona un po' come 'meno è meglio di più'; un concetto molto caro a una figura predominante della Pop art: Andy Warhol. Se il pittore di Pittsburgh avesse gettato il suo sguardo lungimirante sul basket moderno, di certo di fianco a Marylin Monroe, Mao Zedong, Michael Jackson o Grace Kelly troverebbero spazio anche WIlt Chamberlain (vi rimando al delizioso articolo di Marco Eugeni sull'esegesi dei cento a referto Ndr.), Kobe Bryant, His Airness e... Allen Iverson. Proprio lui, con la maglia numero 3 dei 76ers tatuata sulla schiena. Lui che prima di Georgetown era stato condannato a quindici anni di detenzione per una rissa, da scontare a Newport News City Farm. Lui che camminò oltre Tyronn Lue e condusse la sua squadra alla miglior gara-1 nella storia dei playoffs. Lo stesso Iverson che nel 2001 scrisse la pagina più spasmodica dell'All Star Game e regalò ai tifosi un quadro di Andy Wharol in '15 minuti di gloria'. Perché - se a detta dell'élite newyorkese - il pittore era la risposta al ristagno degli anni sessanta, di certo Allen Iverson era di sicuro "The Answer" non solo per gli amanti del basket, ma per chiunque ami lo sport.
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E' l'11 Febbraio 2001, negli Stati Uniti un gruppo di ricercatori compie una grande scoperta scientifica: il patrimonio genetico dell'uomo è compreso tra i 26 e i 40.000 geni, molto al di sotto dei 100, 150.000 ipotizzati. Anche il mondo dello sport è in visibilio e la tre giorni più importante della palla a spicchi sta per concludersi. Si gioca a Washington D.C., capitale di libertà e dei Wizards; non un soprannome erroneo per l'uomo che sta per cambiare il volto della partita delle stelle. Manca solo est contro ovest e l'NBA potrà tornare a rifiatare e sorridere in vista delle gare che contano.
Nessuno sa ancora che Allen Iverson ha altre idee per la testa.
Venerdì. I Sophomores (giocatori al secondo anno) battono i Rookie (primo anno) e l'MVP non parla l'inglese come lingua madre; è nato a Madrid e si chiama Wally Szczerbiak, dei Minnesota Timberwolves.
Sabato. Lo spettacolo della gara delle schiacciate, già in tenuta Sprite, lo conclude Desmond Mason, 17esima scelta dei Seattle SuperSonics. Dieci - Dieci - Dieci, ancor prima di Alessandro Borghese e i suoi quattro ristoranti. NBA Three-Points Shootout tra i guanti bianchi ed eleganti di Ray Allen (ma va'!) dei Milwaukee Bucks e mentre prende la mira sembra di udire un assolo di David Gilmour nell'aria. Non puoi non guardarlo e non puoi non ascoltare il rumore della retina quando il pallone la sfiora, in una delle finali più attese di sempre con un terzetto che, oltre Ray, comprendeva Jesus Shuttlesworth, Peja e Wunderdirk.
Domenica. Non è un giorno come gli altri e la pioggia cade fine sull'MCI center, come un taglio di Pollock sulla capitale USA. In molti sentono che sta per cambiare qualcosa, proprio come quando Andy Warhol mostrò gli scaffali di un supermercato in un quadro, per la prima volta al parterre mondiale. Fuori dall'arena si erge un complesso di palazzi dei primi del Novecento e una donna sulla sessantina, grande tifosa dei Washington Wizards, osserva l'ingresso scaglionato e lento dei tifosi e inganna la loro attesa mettendo su un vecchio pezzo di David Bowie con decibel da rave: "Heroes". Profetica, anche se di eroe ne vedremo giusto uno con le treccine e la maglia dei 76ers; la casacca di quando gioca in trasferta perché quello sarà l'ultimo All-Star Game con ancora la t-shirt delle squadre d'appartenenza. Torniamo sul campo, perché annunciati dalla dolce raucedine dell'announcer dei maghi, i due quintetti titolari (con qualche sostituzione via infortunio, Ndr.) entrano in campo.
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L'Ovest è un vestito rosso: elegante e tagliente e i primi cinque fanno paura quanto il Dream Team di Barcellona '92. Jason Kidd, Kobe Bryant, Tim Duncan, Kevin Garnett e Chris Webber; insomma qualsiasi concetto di perimetro o post basso fuori dai giochi come suggerì un lucido Flavio Tranquillo. Non giocano a basket, dispensano magie da un cilindro invisibile e guai a dirgli che durante la partita delle stelle non difendono. Infatti, la partita si apre con una stoppata di Tracy McGrady sul mamba e la manona di Duncan sulla situazione in campo aperto. L'est, invece, indossa la casacca da minatore e scava, scava, scava a fondo, trapanando su miniere di talento da blacktop e playground. Vince Carter (il più votato per il secondo anno di fila dopo il trionfo agli Slam Dunk 2000), Tracy McGrady, Antonio Davis, Anthony Mason e il folletto brutto, sporco e cattivo con la tre: Allen Iverson. Dominio ovest e questo non fa notizia, i ragazzi di Rick Adelman scherzano sotto la direzione artistica delle mani di Jason Kidd e il parziale sembra proprio irraggiungibile dopo 39 minuti di partita: +21. Proprio come lo sbalzo termico quel giorno tra Washington e Philadelphia. Trentanove, già, non un numero casuale nella vita di Andy Warhol. Tra i presidenti appuntati sul proprio conta-quadri storico c'è anche Jimmy Carter, 39esimo capo della Casa Bianca e premio Nobel per la pace nel 2002. Si dice che adorasse il basket e avesse sempre un occhio puntato agli incontri della Georgia State University. Un caso? Può essere, ma perché rovinare una bella storia con la verità?
Torniamo alla partita e ai suoi confronti diretti: quando un minatore tira fuori il meglio dal proprio lavoro? Quando è sotto pressione e il freddo sottoterra glii ricorda che là fuori c'è una casa e una famiglia che lo aspettano. Reazioni di orgoglio, proprio come il titolo di un quadro. Allen diventa immarcabile (15 punti sui suoi 25 totali nel controparziale), Carter comincia a giocare come sapeva fare a North Carolina e su un possesso sprecato da Gary Paiton il numero tre firma il pareggio con un sottomano ai danni di Duncan, che per la prima volta cambia la sua espressione facciale dalla palla a due. La tripla decisiva la segna un'egoista dal grande talento, è nato a Brooklyn (New York, proprio come Warhol) e durante una partita con gli ex New Jersey Nets indossò un paio di scarpe con su scritto: 'All alone, number 33' dichiarando interrotto il rapporto con i compagni. Si chiama Stephon Marbury ma tutti lo conoscono come Starbury.
Fischio finale. Allen porta la mano destra all'orecchio per ascoltare la voce unanime del pubblico: 'MVP, MVP, MVP!'. Detto fatto e per una notte i minatori dell'est stracciano il vestito elegante per tornare a casa al caldo dopo il freddo delle miniere, riparati dalla coperta del MCI Center. Perché se Andy Warhol avesse dipinto Allen Iverson, di certo avrebbe estrapolato una sua massima per appenderla al ritratto: "Il mio stile è sempre stato quello di estendermi, in ogni campo, più che salire. Per me la scala del successo era più laterale che verticale." Avevi proprio ragione, Andy.
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