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Quando si spengono le luci

Immagine del redattore: Eugeni MarcoEugeni Marco

Nello sport a grandi livelli c'è sempre stata una tendenza: valutare la carriera di un giocatore in base a ciò che ha vinto. Nel mondo del calcio ne è un esempio il percorso fatto negli ultimi anni da uno dei più grandi numeri 1 della storia, Gianluigi Buffon, alla costante e spasmodica ricerca della vittoria della coppa dalle grandi orecchie, la Champions League. Ci troviamo davanti ad un giocatore che non avrebbe bisogno di questa coppa per affermarsi, ha vinto un Mondiale nel 2006 con l'Italia da assoluto protagonista, un numero indefinibile di campionati e di premi individuali, ed ha più volte dimostrato che nel suo "peak", termine cestistico usato per definire il momento di massima forma, di essere il miglior portiere della storia del calcio.


Questo discorso è ancor più rilevante se si sposta l'attenzione sulla più grande lega di basket al mondo, la NBA. Nel corso della sua storia alcuni dei più grandi cestisti che ne hanno calcato i parquet non sono riusciti a vincere l'anello e questo per molti, appassionati e non, è un dato importante, che divide i campioni dalle leggende.

In altri casi invece è proprio nella sconfitta che viene forgiata la leggenda, come accaduto con il numero 3 di PhiladelphiaThe Answer, Allen Iverson. In quelle famigerate NBA Finals del 2001, Iverson in gara 1, grazie ai 48 punti messi a referto, riuscì a portare la serie 1-0 per i Sixers, e a far perdere ai Lakers la loro unica partita di tutta quella post-season. Poi, come tutti sappiamo, la bilancia della storia andò a pendere dalla parte dei giallo-viola di Shaquille O'Neal e del compianto Kobe Bryant, che spazzarono via i Sixers con un 4-1. Fu però grazie a quella sconfitta che Allen Iverson entrò non solo nei cuori degli appassionati della palla a spicchi, ma anche nell'immaginario pop americano, grazie anche al suo stile inusuale e sempre fuori dalle righe.

Nel corso dell'ultimo mese questa discussione ha preso piede di nuovo durante la visione del documentario "The Last Dance", disponibile in streaming su Netflix, che ripercorre le tappe che portarono al 6° ed ultimo titolo dei Chicago Bulls e soprattutto di His Airness, Michael Jordan.


Durante la sua visione, la mia mente, affascinata ovviamente dalla grandezza del numero 23, si è però anche concentrata sugli sconfitti di quelle Finals del 1998, e soprattutto su 2 personaggi, John Stockton e Karl Malone, guidati dal leggendario Jerry Sloan, venuto a mancare pochi giorni fa.


"Il Postino" e "Il Muto", soprannomi delle 2 stelle degli Utah Jazz negli anni '90, persero contro MJ e i Bulls per ben 2 volte, infatti l'anno prima vennero sconfitti per 4-2. L'anno seguente la squadra arrivò all'appuntamento con la gloria decisamente più forte e motivata, mentre dall'altro lato i Bulls dovettero volare a Salt Lake City il giorno dopo gara 7 contro gli Indiana Pacers di Reggie Miller. Anche questa volta però il destino decise che non era il loro momento di brillare, si arrivò a gara 6 a Salt Lake City ma Michael Jordan mise a referto probabilmente il canestro più iconico della storia del basket. A soli 5,2 secondi dalla fine della partita il numero 23, isolato in uno contro uno contro Byron Russell, penetrò verso destra e segnò il tiro in sospensione che permise ai Bulls di portare a casa serie e anello.

Veramente 5,2 secondi sono sufficienti per descrivere una carriera agonistica ad altissimi livelli? Soprattutto se parliamo del giocatore con più assist e palle rubate nella storia della NBA e di uno che per punti segnati è secondo solo a Kareem Abdul Jabbar?


Stockton venne scelto al Draft del 1984 con la 16° scelta, la consacrazione definitiva avvenne nella stagione da freshman, nel 1987/88, infatti entrato definitivamente nel quintetto base fece registrare una media di 13,8 assist a partita, a soli 23 anni, conditi da 14,7 punti di media. Da quel momento vinse per 8 volte consecutive la classifica degli assist e dimostrò una capacità di capire il gioco che i miei occhi non hanno mai più rivisto, se non in Chauncey Billups. Non si mostrò però mai appariscente, non volle mai le luci della ribalta, né dentro né fuori dal campo, e questo non lo elevò mai a uomo copertina. Nel 1995 tutti però dovettero accorgersi di lui, superò un certo Magic Johnson e divenne il giocatore con più assist nella storia della NBA. L'anno successivo divenne anche primo per numero di palle rubate. In pratica 2/5 delle classifiche che contano nel basket, in cima riportano il nome del numero 12 di Utah. Fu un giocatore che molti sottovalutarono per la propria stazza. Saltò nelle sue prime 13 stagioni solo 4 partite, un uomo di una tenacia unica e un competitivo ai massimi livelli che lavorò sodo ogni giorno per migliorarsi e farsi rispettare in una lega di soli "big men", aprendo la strada a sempre più giocatori che possedevano il suo stesso body-type.

Karl Malone invece arrivò a Salt Lake City l'anno successivo a Stockton, nel 1985, con la scelta numero 13, e già alla sua prima stagione si capì che insieme a quel ragazzetto bianco, simile ad un commesso, avrebbe potuto fare grandi cose, una su tutte diventare il più grande asset playmaker-pivot di tutti i tempi. 206 centimetri per 116 chilogrammi, era come se Hulk avesse ereditato le mani da Leonardo Da Vinci, un gigante con le mani fatate. Non si deve mai dare troppo peso alle statistiche, ma per farvi capire le vette di onnipotenza che raggiunse in carriera, ecco l'elenco della sua media punti in tutti gli anni di carriera: 14,9-21,7-27,7-29,1-31-29-28-27-25,2-26,7-25,7-27,4-27-23,8-25,5-23,2-22,4-20,6-13,2. Una lunga serie di numeri che alla fine ne forma uno, che racchiude in sé la grandezza di un giocatore, 36928 punti. Non era solo questo però, probabilmente il più forte mai visto in post basso, si distinse anche come ottimo rimbalzista e buon difensore. Venne eletto 2 volte MVP della regular season, fu 14 volte un All Star e,come Stockton, fece parte della più grande squadra sportiva di tutti i tempi, il Dream Team del 1992.

Eccoci ora al momento cruciale, nel 1997, nel pieno delle loro possibilità, dopo aver battuto nella finali della Western Conference i Suns di Charles Barkley con un incredibile buzzer beater di Stockton, i Jazz arrivarono in finale.

Alle Finals però si trovarono davanti QUEI Bulls, una macchina da guerra adibita al basket, e purtroppo il destino per quella finale aveva scritto un copione destinato a rimanere nell'immaginario collettivo. Con la serie sul 2-2, si va a Salt Lake City, è l'1 giugno 1997, è la notte del "Flu Game" di MJ. Dopo un malore causato da una pizza della notte prima, Jordan si era presentato alla partita in condizioni psico-fisiche deleterie. Volendo citare il lì presente avvocato Federico Buffa: "Questo non gioca". Il numero 23 invece mise a referto 38 punti, fu protagonista di una delle prestazioni individuali più impressionanti della storia dello sport, e cambiò le sorti della serie. Nasceva una leggenda, mentre altri sarebbero rimasti per sempre ad un passo dalla gloria. L'anno seguente, il 1998, la storia rimase la stessa, 4-2 e tutti a casa.

Poniamoci ora, nuovamente, la domanda di prima: veramente 5,2 secondi sono sufficienti per descrivere una carriera agonistica ad altissimi livelli? No, perché soprattutto in questo racconto, il destino ha dettato le circostanze. Michael Jordan era stato scelto dalla Dea Bendata per vivere una carriera all'insegna del lieto fine, niente e nessuno si sarebbe potuto opporre a questo disegno divino. Allo stesso tempo, niente e nessuno può privare Stockton e Malone dello status di leggende. Spesso i titoli sono anche questione di fortuna, mentre creare una propria legacy ed affermarsi per 20 anni non lo è. 


L'articolo di oggi parla di loro, ma vi potrei elencare almeno 10 grandissimi giocatori di ogni sport, che non hanno vinto quanto realmente avrebbero meritato. Il numero di titoli vinti riempe bacheche e pagine di Wikipedia, ma ciò che rimane veramente sono le emozioni suscitate. Da incurabile romantico, e tifoso di Portland e Roma, non cambierei per nulla al mondo il canestro a 0,9 secondi dalla fine di Lillard in gara 7 contro i Rockets del 2014, o il gol del 3-0 di Manolas contro il Barcellona ai Quarti di Finale di Champions League

D'ora in poi non ricordatevi solo di chi, vincendo, verrà giustamente ricordato negli anni a venire, ma anche di chi costruisce la propria leggenda in altri modi, "quando si spengono le luci".  

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