Il 18 marzo 2021 la Champions League si è conclusa. Non per tutte le squadre, sia chiaro. Solo per le italiane. Un fallimento su tutta la linea in una stagione certamente difficile e trattata con meno sicurezza di quelle passate. Perché non basta che le uniche qualificate agli ottavi siano uscite, ma alcuni si sono dimenticati che la capolista del calcio italiano è stata addirittura eliminata ai gironi.
Fabio Caressa, in maniera neanche tanto divertente, ha detto che tutto dipende dal pallone. In Champions il pallone è troppo morbido, in Italia si usa un modello più pesante. Insomma, dopo anni, ci si è accorti che in ambito internazionale si gioca coi Supersantos e nessuno lo aveva ancora detto. Un modo democristiano, quello del telecronista Sky, per salvare un po' tutti e non farsi nemico nessuno. Al fianco il povero Beppe Bergomi commentava allibito e ribatteva a tutto, bontà sua.
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Non si può semplicemente dire la verità? Ovvero che la direzione tecnica di Inter, Juventus, Lazio e Atalanta è stata mediocre, al di là delle avversarie incontrate e del tempo storico in cui sono avvenute le sfide decisive. Sì, tra Covid e infortuni e problemi di varia natura, le squadre italiane hanno dovuto fare i conti con una situazione precaria. Ma è anche vero che a mancare non sono stati solo gli uomini, ma la lettura tattica di tutti gli scontri diretti.
L'Inter ad esempio, Real Madrid a parte, era in un girone decisamente alla portata. Il problema non è la forza della squadra, che sta dominando il campionato italiano, ma l'adattabilità del suo tecnico al contesto internazionale. Tra Juventus, Chelsea e Inter, Antonio Conte non è mai riuscito né a comprendere la chiave giusta per far funzionare una squadra di rango in Europa e né è mai parso in grado di far fronte al doppio impegno campionato-coppa. Anche quest'anno infatti sta dimostrando che, quando libero da troppi obblighi, sa condurre una formazione verso lo scudetto.
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La Lazio paga sicuramente il sorteggio: troppo forte il Bayern Monaco per poter essere superato. Paga però anche la fragile identità. E' bastato un errore, uno solo, per mandare a monte tutta una partita e naufragare sotto i colpi di una squadra che difficilmente lascia le briciole. Segno che quella fragilità parte innanzitutto dalla direzione tecnica, incapace di ordinare una sterzata ad una compagine alla deriva. Gli stessi problemi sono sorti alla ripresa del campionato la scorsa estate quando la temibile corazzata biancoceleste si sfaldò nel giro di poche partite e perse il treno per lo scudetto. Dunque, per Simone Inzaghi, due prove fanno una sentenza.
L'Atalanta aveva davanti il Real Madrid. Forse molti avevano sottovalutato la formazione di Zinedine Zidane, non certo nella sua stagione migliore, ma sicuramente possessore di un altissimo grado di mentalità vincente. Superare i neroazzurri è sembrata quasi una passeggiata: bastava una accelerazione per scompaginare la vivacità di De Roon e compagni. Passino gli errori sotto porta (clamoroso quello di Gosens in apertura della gara di ritorno), rimane incomprensibile la scelta di Gianpiero Gasperini di privarsi da subito di Zapata e Ilicic, le principali bocche da fuoco atalantine. "L'idea era quella di averli freschi in caso di supplementari" si diceva a denti stretti. Ma perché puntare i supplementari quando puoi vincere direttamente nei '90 minuti?
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La chiusura è tutta per la Juventus. Non facciamone una colpa ad Andrea Pirlo, che ha vissuto queste occasioni da calciatore ma che sa benissimo come da allenatore si viva tutto in maniera diversa. Paga in verità due cose: una squadra forte sulla carta ma costruita malissimo; l'assenza mentale dei suoi migliori giocatori nel momento cruciale del doppio confronto. In tanti hanno additato l'eliminazione col Porto ad una bassa competitività del campionato italiano: in realtà il campionato portoghese, tolte tre squadre (sempre le stesse) ha un livello medio da piani alti della nostra Serie B. Chiaro che se ti mancano Ronaldo, Morata, Arthur, Bonucci, Alex Sandro e Cuadrado in una singola serata, allora si fa veramente tutto più complicato.
Cosa ci dice dunque questa Champions League? Una cosa essenzialmente: le squadre italiane non hanno tecnici di caratura internazionale. Ovvero tecnici che sanno adattarsi al doppio impegno, al contesto, alla diversità che c'è tra un campionato ed una competizione. Nessuno tra Pirlo, Inzaghi, Gasperini e Conte ha una mentalità vincente. Tutti e quattro, mi si passi la citazione, hanno avuto un modo di preparare le partite troppo italiano. Si gioca per non prenderle, per provarci, ma senza la giusta convinzione. Gli ultimi tre tecnici che hanno fatto bene sono tutti a casa, per motivi diversi: Di Francesco (semifinale con la Roma) si è perso; Allegri e Spalletti attendono tempi migliori. Il ritorno degli ultimi due sembra l'unica ancora di salvezza per il calcio italiano. Dove, però? Ancora non si sa.
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