Tutto il sistema NBA nel corso degli anni è stato studiato in modo tale da garantire una competizione più vera possibile, grazie ad un insieme di regole che cercano (quanto più possibile) di non creare dei team che possano restare al vertice per troppo tempo e allo stesso tempo dare la possibilità anche alle squadre meno blasonate di arrivare al top della lega. L'esempio più famoso è quello del Draft, nel quale a contendersi le prime posizioni, e quindi i prospetti migliori, sono le squadre arrivate più in basso in classifica, con questo sistema che però ha spesso portato al cosiddetto "tanking" (perdere di proposito per avere una scelta più alta), anche se con l'introduzione di alcuni nuovi meccanismi la portata di tale fenomeno è stato notevolmente ridotta.
Come è logico aspettarsi però ci sono squadre più abili di altre nel rifondare il proprio roster e tornare al top in meno tempo delle altre, e non solo per questioni legate alla bravura dello staff o della dirigenza, ma anche per questioni extra-basket come l'appetibilità della città. I Minnesota Timberwolves (per fare un esempio) spesso in questo sono stati penalizzati, in quanto Minneapolis non è stata mai vista come la città migliore nella quale vivere, con i giocatori che molte volte hanno scelto altre destinazioni, nelle quali magari le possibilità di vittoria erano notevolmente inferiori.
Altro aspetto importante è il blasone di una squadra e la propria storia passata. In questo 2 team sono un passo avanti rispetto a tutti gli altri, i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers. Vestire una di queste 2 casacche è il sogno di ogni appassionato di pallacanestro, figuratevi di chi a tali livelli ci gioca. Spesso però neanche questo è bastato e dall'inizio degli anni '10 le franchigie in questione hanno attraversato anni molto bui e apparentemente senza via di uscita.
In questa stagione però sia i gialloviola che i biancoverdi stanno vivendo la loro miglior annata da molto tempo a questa parte, grazie a 2 tipi di approccio al lavoro molto diversi. I Celtics sono riusciti a creare un roster con giovani pieni di talento (Tatum, Smart e Brown) accompagnati da giocatori di prima fascia come Kemba Walker ed il martoriato Gordon Hayward. I Lakers invece una volta aggiudicatisi LeBron James sono diventati "the place to be" per ogni giocatore del pianeta e con l'aggiunta di Anthony Davis si sono trasformati in una forza inarrestabile (non però priva di difetti).
Un loro ennesimo "showdown" alle Finals sembra quindi possibile, 10 anni dopo la loro ultima sfida nell'atto finale della stagione. In quell'occasione ad aggiudicarsi il titolo fu Los Angeles, guidata da uno degli allenatori più ricordati e vincenti della storia, Phil Jackson. Proprio all'uomo protagonista del libro "Eleven Rings" è dedicato questo pezzo, e al racconto della sua esperienza nella città degli angeli.
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Questo signore nato a Deer Lodge, in Montana, è stato probabilmente l'allenatore maggiormente in grado di creare dei cicli vincenti nella storia di questo sport, come dimostrato dai 3 "three peat" e dal fatto che dal 1995 al 2002 ha partecipato a 6 campionati NBA e li ha vinti tutti. Prima il three peat con i Bulls, in seguito un anno sabbatico e poi altri 3 titoli consecutivi con i Los Angeles Lakers. Dopo di che però Jackson è restato a guardare gli altri vincere per ben 7 anni, un'attesa interminabile per un vincente come lui. Dopo il 2003 e l'eliminazione per mano dei San Antonio Spurs la squadra di Kobe e Shaq va piano piano a sfaldarsi, causa anche alcune situazioni extra-campo come le accuse di violenza sessuale mosse verso il "Black Mamba" e il fatto che sia lui che O'Neal a fine stagione sarebbero diventati free agent.
Una franchigia così distrutta che perse sì in finale contro quella grande squadra che erano i Detroit Pistons di Rasheed Wallace e Chauncey Blilups, ma che aveva nel proprio roster oltre ai 2 già citati anche Karl Malone e Gary Payton, e che dall'esterno sembrava essere la cosa più vicina alla perfezione, ma così non era. Un team formato solo da grandi giocatori era ciò che Jackson detestava di più, pieno di qualità ma formato da individualità incapaci di giocare insieme e creare un'alchimia vincente. Alla fine dell'anno quasi tutti abbandonarono la barca, anche lo stesso allenatore, e il futuro di una franchigia costretta a ripartire da zero fu messo tutto nelle mani del numero 8/24, a seconda di quale versione di Kobe preferite.
Dopo un solo anno Phil però torna in panchina, chiedendo in cambio di poter formare la squadra secondo le proprie idee di gioco e di essere trattato diversamente dai giocatori, definiti dal coach troppo egocentrici e irrispettosi verso la sua figura. Questo stesso tipo di atteggiamento caratterizzò anche i Bulls dei primi 3 anelli, che spesso sottovalutarono la figura di Jackson e che poi vennero salvati più volte dalle sue intuizioni. Una su tutte ( oltre al "triangle offense", che ha cambiato l'approccio a questo sport), il far sentire Michael Jordan allo stesso tempo la star della squadra ma non l'unico dal quale far dipendere una vittoria, creando schemi e tattiche che prendessero in considerazione anche solamente la capacità passiva di MJ di attrarre difensori verso di sé, per poi dare la palla decisiva ad un "insospettabile", magari lasciato solo e senza difensore.
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Abituato a vincere in modo quasi immediato, alla sua seconda esperienza con i gialloviola pensa innanzitutto a ricucire il rapporto con Kobe (che ha il compito e il dovere di dimostrare di poter vincere anche senza uno dei suoi più grandi amici/nemici, Shaq) e di creare un progetto pronto ad esplodere nel lungo periodo. Ogni anno viene aggiunto un tassello fondamentale per il "piano quinquennale" sovietico del coach, che con il ritorno di Derek Fisher e la scelta al draft Andrew Bynum, un talento purissimo, inizia ad avere in mano ciò che desiderava da tempo, non giocatori blasonati ma funzionali.
Il vero innesto però arriva nel 2008, ed è un ragazzo iberico che con i suoi 2 metri e 16 di altezza e delle mani delicatissime porta i Lakers ad un effettivo salto di qualità, Pau Gasol. Con lo spagnolo cambia completamente faccia anche Lamar Odom, fino a quel momento conosciuto per un rendimento tutt'altro che costante. Nel 2009 Phil e la sua "clique" tornano finalmente in finale, ma ad attenderli ci sono gli avversari di sempre, con i quali negli anni di Magic Johnson e Larry Bird hanno messo in piedi delle vere e proprie opere d'arte della palla a spicchi.
Stiamo logicamente parlando dei Boston Celtics, che però si presentano nella loro forma finale e capitanati da Paul Pierce, Ray Allen e Kevin Garnett. Come previsto non c'è niente da fare, troppa differenza tra le due squadre, ma Jackson sa perfettamente che anche la sconfitta fa parte a pieno di un vero progetto di crescita. L'anno dopo infatti, con un Bryant calato a pieno nel ruolo di leader e non più di prima donna, arriva la decima sinfonia per Phil, e il quindicesimo per la squadra. Ma tutto questo ad un affamato di vittorie come l'ex allenatore dei Bulls non basta, deve lavare via l'onta lasciata dalla sconfitta con Boston, principalmente per 2 motivi: il modo in cui è arrivata e il fatto che erano stati proprio loro ad interrompere il digiuno dei biancoverdi, che non vincevano un titolo ormai dal 1986.
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L'occasione si ripresenta l'anno dopo, nel 2010, con l'aggiunta di un nuovo innesto: Ron Artest, uno dei difensori migliori della lega, che dà una solidità incredibile alla squadra. Alle Finals è uno scontro non solo sportivo, ma di ideali. Due squadre da sempre agli antipodi in ogni aspetto. Come la storia delle grandi narrazioni vuole, si arriva fino a gara 7, un'occasione tanto ghiotta quanto fatale per Los Angeles e Phil Jackson di vendicarsi. Anche questa volta le idee portate avanti dal coach hanno avuto la meglio, a decidere questa partita non saranno i giocatori sotto le luci della ribalta, con Gasol e Bryant disastrosi al tiro, ma Lamar Odom e il nuovo arrivato Artest. Se cercate una poetica in tutto questo, non potete non rivedere in questi 2 un pizzico di Steve Kerr, che da sbarbato biondino nato a Beirut portò il quinto titolo a Chicago, prendendosi i meriti al posto del 23 proveniente da North Carolina, che si fece da parte per consegnare all'attuale coach di Golden State il tiro decisivo contro gli Utah Jazz.
"Forse avrei dovuto chiuderla lì, con la folla acclamante (...), ma la vita non segue mai un copione così ben scritto".
Un addio dopo un momento così bello sarebbe stato la giusta conclusione di una carriera troppo bella per essere accompagnata dal solito aggettivo sensazionalistico, ma ciò non è accaduto per la voglia che ha sempre contraddistinto questo signore, che vive il basket e la propria esistenza nel modo più pieno possibile, legato ad un'idea di gioco che rispecchia la propria visione del mondo, influenzata dalla vicinanza alle idee dei nativi americani (con cui aveva molto legato da bambino), grazie ai quali è riuscito ad approcciare la vita in modo diverso da tutti gli altri. Una vita basata sulla consapevolezza di noi stessi e il duro lavoro, concetti alla base del successo, che lo hanno reso un uomo capace di lasciare un segno indelebile nella storia della pallacanestro.
"Rialzati sempre, non importa quanto dura sia la caduta e quanto spesso tu cada. Si tratta solo di quante volte sei disposto a rialzarti per tentare un'altra volta."
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