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Icone: Ferenc Puskás

Immagine del redattore: Tellurio MatteoTellurio Matteo

"Se avessimo vinto il mondiale del '54 forse non avremmo avuto i morti del '56". Questa è una tesi, sfortunatamente non dimostrabile, che la gran parte degli ungheresi vissuti negli anni '50 sostiene. Se la nazionale più forte del mondo non avesse perso e, contemporaneamente, scoperchiato il vaso di pandora dei problemi della nazione, forse l'insurrezione ungherese non ci sarebbe mai stata. In questa interessante teoria si parla della nazionale ungherese che, all'inizio degli anni '50, dominava in lungo e largo, la "Squadra d'oro" guidata daFerenc Puskás.

Figlio di Franz Sr, svevo di etnia tedesca, il cognome diventa Puskás perché in quegli anni era meglio avere un nome magiaro, soprattutto se si voleva prendere il patentino da allenatorePuskás padre sarà proprio il primo allenatore del figlio all'esordio con il Kispest. Ferenc era cresciuto giocando insieme agli amici scalzo nei prati vicino lo stadio, tutto normale se non fosse che due dei compagni erano József Bozsik e László Kubala, entrambi inseriti tra i 100 giocatori del secolo, il secondo tra i primi 25 insieme al nostro protagonista. L'esordio in prima squadra avviene a soli 16 anni, valendogli così il soprannome di "Öcsi", il fratellino.

Negli anni in Ungheria la Kispest diventerà la Honved, dopo l'acquisizione da parte del Ministero della Difesa, e con lei Puskás vincerà 5 campionati segnando addirittura 50 gol in una stagione. Al termine dell'avventura in patria avrà un bottino di 357 gol in 354 partite. In quel periodo però Puskás stava anche scrivendo la storia dell'Ungheria grazie alla nazionale.

Aranycsapat, "squadra d'oro" nella complicatissima lingua ungherese, è l'appellativo con cui passerà alla storia quella nazionale, imbattuta per 31 partite e campione olimpica nel '52. Ai Giochi di Helsinki i magiari spazzano via tutti gli avversari fino alla finale contro la Jugoslavia di Boškov. Puskás sbaglia addirittura un rigore ma, quando rientra dall'intervallo, cambia completamente la gara siglando una doppietta storica. Quella squadra sembra semplicemente imbattibile, rifilerà due sconfitte cocenti agli inglesi di cui una a Wembley per 6-3, entrata nella storia per un gol di Puskás ultraterreno.

Al Mondiale del 1954 in Svizzera sono la squadra da battere ma il destino ha in serbo per loro un finale diverso. Nella seconda partita contro la Germania Ovest, gli ungheresi scherzano con gli avversari vincendo per 8-3. Durante l'incontro Puskás ridicolizza Liebrich che poi, in un durissimo placcaggio, gli fratturerà la caviglia. Puskás giocherà solo in finale e ad un quarto delle sue possibilità proprio contro la Germania Ovest. L'Ungheria va in vantaggio per 2-0 ma i tedeschi la ribaltano sul 3-2. Puskás segnerà addirittura il 3-3, un gol regolare ma annullato dall'arbitro. Anni dopo Gary Lineker dirà la famosa frase "Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince" ma è straordinariamente calzante anche per questa occasione. La sconfitta avrà ripercussioni, anche extra calcistiche, pesantissime. Il calcio ungherese muore in quella domenica di luglio, nota anche come il Miracolo di Berna.

Nel '56 la rivoluzione colpirà anche sulla Honved. Dovendo andare in trasferta per la Coppa Campioni durante gli scontri, i giocatori prendono il pullman nel tentativo di fuggire verso Vienna. La squadra vive una vera e propria odissea, culminata al confine quando la polizia ferma Puskás perché da Budapest è arrivata la notizia della sua morte al fianco dei rivoluzionari. Non si sa come Puskás abbia convinto la polizia, probabilmente grazie ad un oggetto sferico, ma alla fine la squadra arriva a Vienna e parte per Bilbao. Nel doppio confronto la Honved viene eliminata ma i giocatori non vogliono rientrare in patria. La squadra è accusata dal governo di tradimento e diserzione, essendo stipendiata come appartenenti all'esercito, ed i giocatori iniziano una vera e propria tournèe in Europa ed in Brasile. Il problema sono le famiglie, Puskás non riesce a stare lontano dalla amata Elisabetta (la bellissima donna che fece saltare il suo trasferimento alla Juventus) e la loro piccola figlia. Idue si rincontreranno a Milano, in un momento felice e commuovente dopo la fuga della sua famiglia dall'Ungheria. I Puskás si trasferiranno a Bordighera, sostenuti tra i vari, anche dall'amico di sempre László Kubala, all'epoca al Barcellona.

Qui per molto tempo viene corteggiato, anche con una cattiva forma fisica e la squalifica della FIFA, da molte squadre tra cui Inter e Manchester United. Alla fine però verrà portato alla corte del presidente Bernabeu per giocare con i blancos. Nonostante lo scetticismo iniziale visto lo strapotere della squadra nelle mani di Alfredo Di Stefano e della condizione terribile dell'attaccante ungherese, a 31 anni Puskás visse una nuova giovinezza. Insieme a Di Stefano ha formato una delle coppie d'attacco più forti della storia. Ha segnato con il Real 242 gol, ha vinto 6 campionati spagnoli e 3 Coppe dei Campioni, arrivando in finale anche altre due volte.

Due sconfitte storiche in finale per Puskás, la prima perché avvenne contro il Benfica di Béla Gutmann, uno dei padri del calcio ungherese nonché suo ex allenatore, l'altra perché contro l'Inter nella quale militava Sandrino Mazzola. Al termine della partita contro i nerazzurri, Mazzola voleva la maglia di Di Stefano ma fu fermato da Puskás che gli disse di aver giocato contro suo padre, il leggendario Valentino, e che lui sarebbe stato molto fiero di suo figlio. Ancora oggi Sandro Mazzolaconserva la maglia di Puskás, scambiata quella sera, come un cimelio storico. 

Un giocatore dotato di un sinistro che forse solo Maradona e Hagi possono avvicinare. Prolifico in una maniera disumana, riusciva, nonostante il suo fisico corpulento, ad avere un'ottima agilità, che unita alla sua continuità e al suo senso tattico, lo hanno reso uno degli attaccanti più forti della sua generazione. Uno così lontano dalla palla non poteva stare ed infatti, dopo il ritiro, iniziò anche la carriera da allenatore. In panchina ha girato praticamente ovunque, lasciando sempre il segno del suo passaggio. In Grecia per esempio, alla guida del Panathīnaïkos, ha compiuto un vero e proprio miracolo, portando i greci fino alla finale di Coppa dei Campioni. Il suo arrivo ad Atene si può paragonare senza troppi problemi all'apparizione della Madonna, calcisticamente parlando ovviamente. Il popolo greco non lo dimenticherà mai proprio perché lui, più di chiunque altro, aveva colto l'essenza del suo spirito, un errante come Ulisse che alla fine aveva fatto ritorno a casa

Puskás oggi riposa, come gli imperatori e le reliquie dei santi, nella maestosa Basilica di Santo Stefano. Il destino, a volte troppo crudele, gli ha rubato gli ultimi anni di vita, colpendolo con quella terribile malattia che è l'Alzheimer, privandolo del ricordo del grande uomo che era. Fortunatamente a proteggere la sua memoria c'è quella collettiva, che di lui non si dimenticherà mai

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