Il 22 dicembre 2020 molto probabilmente sarà una data che segnerà in modo decisivo la storia recente della pallacanestro americana: in primis perché darà il via alla nuova stagione NBA, che non iniziava così tardi dal 2011, anno del quarto e fino ad ora ultimo "lockout" (in italiano "serrata"), che restò in vigore dal 1° luglio, giorno nel quale terminò il contratto collettivo che regolava i rapporti tra giocatori e franchigie, fino al 25 dicembre dello stesso anno. In secondo luogo perché sarà il giorno del ritorno in campo in una gara ufficiale del ragazzo con indosso la maglia numero 7 e nato a Washington il 29 settembre 1988, Kevin Durant.
Infatti un anno e mezzo dopo l'infortunio al tendine d'Achille occorso durante i play-off 2019 in maglia Golden State Warriors e il passaggio ai Brooklyn Nets, Durant può finalmente tornare in campo e provare sin da subito, condizione fisica permettendo, a portare un anello nella parte sfortunata (ora non più) di New York. Nel giro di un solo anno gli ex New Jersey Nets hanno completamente rivoluzionato la squadra e dopo che nella scorsa stagione hanno fatto a meno dell'ex MVP e di Irving per buona parte dell'annata, hanno ora a completo un roster molto competitivo, comunque ancora un passo indietro rispetto ad altri team come ad esempio le due franchigie di Los Angeles.
Questa avventura, e tutto quello che verrà successivamente, per l'ex Thunder rappresenterà l'inizio di una seconda e nuova vita cestistica, dopo che la prima (iniziata nel 2007, anno del suo arrivo in NBA, ed idealmente conclusa il giorno dell'infortunio), è stata fatta di tante luci, come il titolo di MVP o l'anello con Golden State, ma anche di tante ombre, come la tanto criticata scelta di andare a giocare nella Baia.
Ma cosa più importante, da ormai 13 lunghissimi anni l'ormai 32enne viene da tutti additato come l'eterno secondo: per tutti è il fenomeno che ha avuto la sfortuna di nascere nella stessa era di Lebron James, il fenomeno nel suo stesso team all'ombra di Stephen Curry. Questo processo ha forse portato a sottovalutare le capacità di un atleta che in rapporto alla sua altezza (211 centimetri) è il più elegante, tecnicamente capace e letale mai visto, spesso denigrato per le sue scelte e svilito dai paragoni, il tipico esempio di giocatore da tutti rimpianto una volta appese le sneakers al chiodo.
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Il rapporto tra i Portland Trail Blazers e il draft è stato da sempre difficile, nella propria storia la franchigia dell'Oregon è riuscita a lasciarsi scappare oltre a Michael Jordan anche lo stesso Kevin Durant. Il 28 giugno 2007 infatti, in una lottery non così piena di talenti, i rossoneri decisero con la prima scelta assoluta di puntare su Greg Oden, centro proveniente da Ohio State che in NBA non riuscirà mai ad imporsi a causa del suo corpo di cristallo e che in 4 anni riuscirà a giocare solamente 82 partite. Ai tempi Oden era visto come il prossimo Shaquille O'Neal, ma anni dopo molti nutrono dei dubbi non tanto riguardo il talento del centro, ma su come possa essere stato scelto prima di un giocatore ai tempi ancora acerbo, ma che già aveva mostrato cose fuori dal comune.
Questo episodio, per molti insignificante, aveva già dato un primo allarme sul fardello che avrebbe accompagnato il ragazzo per tutta la carriera, un eterno secondo scelto alla numero due.
Negli anni ad Oklahoma Durant è riuscito a fare tutto il possibile, ha vinto il titolo di Rookie dell'anno, quello di MVP con 32 punti di media, ha preso per mano insieme a Russell Westbrook e James Harden una neonata franchigia ed imporla in pochi anni ai vertici della lega. Nella stagione 2009-2010, a soli 22 anni, è riuscito a vincere il titolo di top scorer con una media 30.1 punti a partita, il più giovane di sempre a riuscirci. Dietro di lui però aleggiava un fantasma: quello di Lebron James. Nella stagione da rookie di Kevin, LBJ riuscì praticamente da solo a portare quell'armata Brancaleone che erano i Cavs di quei anni alle Finals. Quando nel 2012 riuscì ad arrivare alle Finals, il numero 6 di Miami era lì ad aspettarlo. Ogni cosa alla quale Durant ambiva, Lebron la aveva già fatta. Quando i due si affrontavano, ad avere la meglio era sempre il ragazzo di Akron.
Proprio questo però lo ha spinto sempre a migliorarsi, Lebron da sempre ha avuto la grandissima capacità di adattarsi e ricoprire tutti i ruoli del campo. Kevin, fisico permettendo, ha provato anche lui a trasformarsi in un giocatore il più versatile possibile, e ci è riuscito. Ma tutto ciò non è bastato, ormai il secondo gradino del podio aveva inciso il suo nome, e riuscire a cancellarlo diventò praticamente impossibile.
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Nel 2016 però, dopo quasi 10 anni in maglia Oklahoma ed aver raggiunto un livello di gioco praticamente perfetto, per Durant era arrivato il momento di vincere. Dopo essere stato buttato fuori dai Warriors nella finale di conference ed aver tentato di portare sul tetto del mondo i Thunder, nella successiva free agency decise di accasarsi proprio nella Baia. Una scelta che la quasi totalità degli amanti del basket criticò, perché decise di andare in una squadra che l'anno prima aveva fatto registrare 73 vittorie e 9 sconfitte e nella quale erano già presenti 3 star del calibro di Stephen Curry, Klay Thompson e Draymond Green. Non una sfida per molti ma solo un subdolo trucco per prendersi il tanto agognato anello senza troppa fatica. Anche chi sta scrivendo in parte la pensava così, ma un talento del genere non aveva il diritto di finire la carriera senza neanche un anello, e ciò che doveva dimostrare lo aveva già ampiamente dimostrato.
Inoltre l'avventura di Golden State ha dimostrato un altro aspetto del gioco di Durant: la sua capacità di poter giocare insieme a chiunque. Molti grandissimi giocatori del passato e del presente hanno da sempre avuto come principale limite quello di saper esprimersi con determinati tipi di giocatori, cosa che invece a Kevin non è mai successa. Nessuno ha analizzato a pieno quanto l'inserimento di un altro all-star potesse distruggere gli equilibri di Golden State, cosa che invece non è successa.
Anche in questa occasione però, come nello storico duello con Lebron, questa sua scelta e il conseguente odio arrivato nei suoi confronti lo hanno portato ad inimicarsi buona parte dei tifosi che lo hanno messo nelle vittorie in maglia giallo-blu sempre un gradino sotto a Curry, quando in realtà l'apporto del numero 35 è stato di gran lunga quello più decisivo per arrivare fino in fondo, come dimostrano i 2 titoli di MVP delle Finals.
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Toltosi dalle spalle questo grande peso che rappresenta la vittoria dell'anello Durant ha deciso di accettare una nuova sfida, questa volta tutt'altro che semplice, che arriva precisamente dopo un grande infortunio che come detto in precedenza rappresenta l'inizio di un nuovo anno zero.
Nella sua strada ha sempre trovato qualcuno pronto a prendersi le luci della ribalta al posto suo, che in un modo o nell'altro ha cercato di intaccare le gesta di quello che dal sottoscritto viene considerato l'attaccante più completo di sempre.
Deve essere frustrante accorgersi quando ormai è troppo tardi di non essersi goduti abbastanza quello che ci è stato concesso, come deve essere frustrante per Kevin Durant sapere di essere nato all'ombra del tempo.
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