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Un anno senza Kobe e Gianna

Immagine del redattore: Eugeni MarcoEugeni Marco

Quando viene a mancare qualcuno, tutti noi ricordiamo con precisione cosa stavamo facendo nell'esatto momento in cui siamo venuti a scoprire la notizia. Ricordiamo tutto come se fosse una istantanea scattata nella mente, in grado di non levarsi più via. Ecco, io ricordo che era sera, pochi minuti alla cena. Il cellulare inizia a vibrare di messaggi, in una chat di gruppo arriva lo schiaffo: dicono che sia morto Kobe Bryant. Dicono o è morto Kobe? Non lo so, TMZ ha lanciato l'indiscrezione, loro ci prendono sempre in questi casi.


Il tam tam è stato immediato. Tutti i tg d'Italia si fermano, i siti internet attendono aggiornamenti con ansia e la speranza che non fosse lui il protagonista. Come se, in un modo abbastanza assurdo, la morte di qualcun altro fosse in qualche modo un sollievo. Poi la conferma, e già lì il cuore si distrugge. Soprattutto perché Kobe ha rappresentato un pezzo di adolescenza fortissimo, il segno che il basket avesse trovato un altro idolo da onorare dopo che MJ aveva deciso di lasciare questo sport.


Ma qualcuno ha deciso di calpestare ancora quel cuore distrutto quando siamo venuti a conoscenza che con lui ci fosse anche sua figlia Gianna Maria, 13 anni appena, futura stella del basket femminile americano. E con loro altre sette persone hanno perso la vita. Un disastro, una tragedia che ancora oggi fa male come il tempo che passa. Ed è un po' come se il mondo avesse cambiato pelle perché la nostra vita, dopo il 26 gennaio, non è stata più la stessa.

Il mondo dei social dopo essere venuto a conoscenza dell'accaduto è semplicemente esploso. Non solo quello del basket, l'intera comunità sportiva mondiale e non è rimasta sconvolta di fronte alla prematura dipartita dei 2. Da un lato perché lasciava per sempre la Terra una ragazzina di soli 14 anni, dall'altro perché se n'era andata una delle icone più importanti nella storia della pallacanestro e dello sport americano.


Schietto, controverso, un personaggio per certi versi oscuro, capace però di lasciare un'impronta indelebile, questo è il ritratto dell'ex numero 8 e 24 dei Los Angeles Lakers. Per alcuni un role model, per altri un uomo con i suoi fantasmi e scheletri nell'armadio, ma indipendentemente da questo il pianto che ha accomunato milioni di persone quel 26 gennaio 2020 faceva riferimento soprattutto al Kobe giocatore, del quale si può dire ben poco. Delle sue abilità in campo se n'è parlato molto, sia prima che dopo la sua morte, perché di fronte ad un giocatore del genere c'è poco da dire, uno di quei pochi eletti che vengono spesso menzionati quando si parla di G.O.A.T., ma si è finalmente fatta luce su un aspetto che da sempre ha distinto Kobe dagli altri: la sua voglia di lavorare e migliorarsi, come raccontato da chi ha avuto il privilegio di giocare insieme a lui. Era quel tipo di persona che si presentava al palazzetto 3 ore prima di tutti, tirava 1000 volte e se sbagliava anche un solo canestro non era soddisfatto. E' proprio questo che distingue i fuoriclasse dal resto: non essere mai sazi, mai domi ma soprattutto mai soddisfatti ed appagati.


Nato con il mito di Michael Jordan ogni singolo giorno della sua vita ha lavorato per superarlo, non per diventare come lui, e questo già è un aspetto, a primo impatto marginale, che riesce ad esprimere a 360 gradi il carattere del "Black Mamba". Come il numero 23 dei Chicago Bulls ha sempre preteso moltissimo dai suoi compagni e non ha mai accettato di perdere una partita se anche un solo suo compagno non avesse dato il 100%. Negli anni più bui dei Lakers, che hanno coinciso con le sue ultime stagioni, ha sempre ribadito come odiasse vedere i suoi compagni ridere o scherzare dopo una sconfitta. Mentalità vincente.


Ogni persona che avesse il benché minimo ricordo o immagine di Kobe ha voluto postare sui social, esattamente un anno fa, il proprio personalissimo omaggio, ma la testimonianza più significativa è stata sicuramente quella di Shaquille O'Neal, un uomo che con il "Black Mamba" ha condiviso praticamente tutto sia in campo che fuori, sia gioie che dolori, per sempre amici/nemici.


Infatti in occasione del Memorial a lui dedicato allo Staples Center del 22 febbraio 2020 Shaq ha deciso di leggere questa lettera:


“Sono orgoglioso che nessun altro team, dopo il nostro periodo ai Lakers, non sia riuscito a realizzare quello che abbiamo fatto durante i primi anni 2000, con il Three Peat. Come molti sanno e io lui abbiamo avuto una relazione complicata ai tempi dei Lakers. E sì, a volte, come bambini immaturi, abbiamo litigato. Ci siamo scambiati battutine o insulti a vicenda, spesso con commenti offensivi. Ma in campo, non commettevamo errori, ci facevamo l’occhiolino a vicenda e ci dicevamo "Andiamo a prendere tutti a calci in culo". In verità io e Kobe abbiamo sempre avuto un grande rispetto reciproco. Il giorno in cui Kobe ha guadagnato il mio rispetto, i compagni di squadra mi avevano detto: “Kobe non passa mai la palla…” Allora sono andato da Kobe e gli ho detto: “Ehi Kobe, guarda che non c’è ‘I’ nella parola ‘TEAM’…” (‘I’ inteso come lettera ma anche come “io” in inglese) E lui mi rispose: ‘Lo so, ma c’è una “M” e una “E” in quella parola, motherfucker (stronzo)!. Quindi son tornato a parlare agli altri e ho detto: ‘Cerchiamo di prendere i rimbalzi perché credo che non la passerà mai’. Mamba, sei stato portato via da noi troppo presto. Il tuo prossimo capitolo della vita è solo all’inizio. Infatti è arrivato il tempo per noi di portare avanti la tua eredità. Sappi solo che ti stiamo guardando le spalle, fratellino. Mi occuperò io delle cose quaggiù. Mi impegnerò ad insegnare a Natalia, Bianca e alla bambina Capri tutte le tue mosse e ti prometto che non insegnerò a loro il mio tiro libero. Mi conforta solo il fatto che mentre parliamo, Kobe e Gigi si tengono per mano, camminando verso il campo da basket più vicino. Kobe le mostrerà alcune nuove mosse del Mamba quale è, oggi. E Gigi presto le padroneggerà tutte. Kobe, tu sei l’MVP del paradiso. Ti voglio bene, amico mio. Fino a quando ci incontreremo di nuovo. Riposa in pace."


E poi quel rapporto speciale con l'Italia che ha reso l'accaduto ancora più struggente per il nostro paese. In 7 anni di permanenza, quelli della sua gioventù, Kobe ha più volte ribadito di aver imparato nel nostro paese i fondamentali della pallacanestro, quelli che oltreoceano vengono spesso tralasciati, ma soprattutto non ha mai perso occasione per dire "grazie" al paese che lo aveva formato ed accolto. Appena diventato famoso è tornato nelle città che lo avevano ospitato insieme a tutta la sua famiglia per dare ora lui una mano, a chi a suo tempo non lo aveva fatto mai sentire solo o di troppo. Una riconoscenza vera, ambo le parti. Molto legato a questa sua esperienza, era solito insultare in modo goliardico (più o meno!?) compagni ed avversari appropriandosi della nostra lingua, in alcune delle scene più esilaranti mai viste in un parquet NBA.

Ad esattamente 365 giorni dalla scomparsa di Kobe e Gianna il mondo intero si sente ancora frastornato e confuso, di fronte ad un intreccio complesso di destini che hanno trovato il loro capolinea insieme. C'è chi in quel tragico incidente ha perso un marito ed una figlia (come Vanessa Bryant), oppure chi molto semplicemente 2 persone apparentemente lontane ma mai così vicine.

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